Un tempo gli inverni erano più lunghi, le notti erano più buie e faceva molto più freddo; la neve cadeva in alti mucchi che coprivano i tetti delle case e la campagna. La gente si radunava nelle stalle al lume delle lanterne a petrolio per sfruttare il calore che emanava il placido ruminare del bestiame. Qualcuno dice che non è vero, che tutto è come allora, ma che sembra diverso per via del riscaldamento che intiepidisce le case, della luce elettrica che permette di passare le serate davanti al televisore, e degli spazzaneve che liberano immediatamente le strade appena finito di nevicare.
Io però amo credere che effettivamente le cose siano cambiate e di conseguenza sia cambiato anche il modo di sentire. Una volta finita la vendemmia e falciato l’ultimo fieno, “ il quartìn”, il contadino aveva ultimato il suo lavoro; se il tempo rimaneva ancora bello per un po’ faceva in tempo ad iniziare la potatura delle viti per la seguente primavera e poi, finito di torchiare e di raccogliere le ultime castagne, si ritirava tranquillo a passare l’inverno in lunghe serate davanti al focolare o nella stalla, intercalate soltanto dalla Messa della domenica o da qualche raro ed eccezionale avvenimento di cui poi si parlava per delle intere settimane.
La prima festa era santa Lucia, il 13 dicembre. Questa è una festa tradizionale nostra, che nel resto d’Italia è pressocché ignorata; e d’altronde è comprensibile: Santa Lucia viene dalle foreste della Svezia e della Norvegia e quindi non può spingersi molto più in là del limite degli abeti e dei larici.
E come divinità nordica, nel mezzo dell’inverno non può portare gran che: una manciata di noci , un torrone e se proprio era una annata propizia anche qualche mandarino, frutto per noi quasi esotico, il tutto posato su un piatto da cucina, magari con qualche pezzo di carbone, per rimproverare presunte manchevolezze.
Eppure nessuna frutta era più gradita e nessuna sorpresa più elettrizzante. Così ci si preparava al Nataleche, quale festa di tutti i cristiani, assumeva un aspetto molto più maestoso con doni assai più ricchi, anche se in verità si limitavano al minimo indispensabile ma che, dati i tempi, rappresentavano una vera Bengodi.
Capodanno senza grandi sorprese, fatta eccezione per un pranzo rallegrato dal tradizionale cappone e poi la Befana che per noi non era la festa dei ragazzi di città, ma una cosa molto più alla buona. La Befana, si sa, viaggia sulla scopa ed i nostri cieli sono troppo freddi, quindi oltre l’imbocco della Valle, alla fine del lago di Como, la buona vecchietta non si avventura ed allora bisogna sopperire in altro modo, nasce così l’usanza del “gabinàt“ termine scaturito dall’unione di due vocaboli tedeschi il cui significato sarebbe: “notte dei doni“.
Visto che di notte la Befana non viene, si va di giorno a rimediare qualche dono un po’ sollecitato; si sale per le scale di legno delle “crapène” cercando di non far scricchiolare le vecchie assi e poi d’improvviso si grida “gabinàt“ e questo dà diritto ad un dono che si risolve sempre in una manciata di castagne e di fichi secchi, ma di un sapore particolare che chi non li ha assaggiati non li può capire .
Ora questa tradizione sta cadendo in disuso; nessuno si scompone più per dei doni di così scarso valore. Così finisce gennaio; le notti si accorciano un poco ed i giorni si allungano in proporzione; c’è nell’aria odore di primavera ma, prima che febbraio inizi, bisogna svegliare l’erba che dorme sotto l’ultima neve. Dato che il suo sonno è greve, bisogna fare molto rumore e, quindi si ricorre a strumenti adatti alla bisogna. Si raccolgono vecchie latte nei cortili, si allineano in lunghe file legate da fili di ferro e poi si trascinano sui ciottoli delle vie aumentando magari il baccano con campanacci e sonori colpi battuti sulle latte stesse: l’erba non può continuare il suo sonno a tanto rumore e con febbraio la buona stagione ricomincerà.
Anche quest’ anno le abbiamo viste queste “tòle“ per le vie di Tirano; solo erano tutte nuove, lucentie sull’asfalto delle nostre vie moderne non facevano più lo stesso rumore di una volta. Forse perché adesso le buttiamo via ancora nuove e nessuno si preoccupa più di ricuperarle per riutilizzarle: chissà!
Un tempo la festa continuava anche all’alba del mattino seguente: le prime persone che si alzavano per portare il latte appena munto alla “casera” si fermavano sotto le finestre dei conoscenti ancora assonnati e, data la mancanza dei campanelli elettrici, chiamavano a gran voce gli interessati; non appena questi si affacciavano gridavano a squarciagola” l’è fò l’urs de la tana “ per ricordare la fine del lungo letargo invernale. Ora anche gli orsi sono spariti per lasciare il posto alla sofisticate villette residenziali e con loro è finita anche questa simpatica tradizione.
Ma i dettagli non contano: l’essenziale è che la primavera avverta il richiamo e ritorni a sbocciare col suo verde e con i suoi fiori.
L’inverno deve finire e, appena morto, bisognerà bruciarlo per dimenticare persino il ricordo. Per celebrare questo avvenimento si aspetta il “carneval dei vècc“ che viene a cadere la prima domenica di Quaresima; del resto è anche giusto, in una terra così povera e avara il carnevale è bene festeggiarlo a Quaresima iniziata, in modo da evitare gli sprechi. Nei vecchi cortili, nelle “contrade” si fa a gara ad allestire i carri più belli o perlomeno i più originali.
Si costruiscono dei fantocci e si rivestono di vecchi panni logori più volte rattoppati, badando bene a non sprecare nulla che possa ancora essere ricuperato; si aggiogano cavalli e buoi e poi si va in giro per tutto il paese mentre la gioventù ride, canta e beve il nuovo vino ancora asprigno ma generoso, al suono di qualche stonata fisarmonica e di tante allegre risate.
Quando la notte cala e le stelle escono a punteggiare il cielo sereno sopra i monti, si accendono dei grandi falò lassù alla periferia verso la vecchia curva del Campone o al Castelàsc e i fantocci vengono bruciati in mezzo al tripudio dei ragazzini ed ai canti dei giovani. Poi nelle osterie attorno alle lunghe tavole sulle panche di legno di noce si continuerà a festeggiare col “quart” e ‘l “ mezz”e “ litri” e” pinte” fino ad ore piccole.
Questo accadeva una volta; anche adesso la tradizione rimane, ma i cavalli e i “ manz” sono stati sostituiti dai trattori ed il tutto è sapientemente organizzato dal “Comitato per il carnevale“.
Solo nei vecchi cortili qualche nostalgico tenta di far rivivere ancora l’antica tradizione. Il tempo però non perdona e i costumi vanno irreparabilmente mutando. La gioventù quasi si vergogna di partecipare alla genuina allegria paesana e gli unici che ancora riescono a goderne sono i bambini. Solo la nostra mente va con nostalgia ai ricordi lontani e pare ancora di sentire il profumo un pò acre delle “manzole“ che si mescolano con il fumo dei “paiaröi“,mentre le ultime scintille dei falò si perdono nell’aria ed un nostalgico ricordo fa vibrare il nostro cuore con un misto di rimpianto e di commozione per un tempo che non ritornerà mai più perché svanito assieme alla nostra fanciullezza.
Di Domenico Corv
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