“Avevo 28 anni, anarchico, portatore sano di precariato cronico, studiavo per fare l’attore e sognavo di diventare regista di videoclip e documentari sociali” -Aureliano Amedei, protagonista del film “20 sigarette”. Il giovane romano passava i pomeriggi al centro sociale tra concerti e manifestazioni contro la guerra, fino al giorno in cui il regista Stefano Rolla gli propone di accompagnarlo in Iraq per girare un film. È l’occasione che aspettava da tempo: un viaggio per vedere dal vivo quel mondo di cui tanto si parlava, la possibilità di fare il vice-regista, insomma, un’avventura. Due giorni per preparare i bagagli, salutare gli amici e poi via, partire lontano verso l’oriente.
Purtroppo il viaggio non ha avuto la durata programmata: neanche il tempo di finire un pacchetto di sigarette e Aureliano è stato rimpatriato in Italia perché rimastovittima di un attentato a Nasiriyya, unico superstite della troup di Stefano Rolla. Una volta in Italia, viene ricoverato all’ospedale militare del Celio, dove viene assalito da giornalisti, politici, militari, diventando una sorta di eroe nazionale.
Il film, visto fuori dal suo contesto, sembra una storia astratta e poco avvincente sulla missione italiana in Iraq . Invece, sapere che la trama è la biografia del regista, che la strage di cui si parla è l’attentato del 13 novembre 2003 dove hanno perso la vita 28 persone, 19 italiani e 9 iracheni,mette tutto sotto una luce completamente diversa. Aureliano Amedei è l’unico civile sopravvissuto alla strage: è rimasto zoppo, soffre di attacchi di panico ed è sordo da un orecchio. Dopo questa drammatica esperienza decide di scrivere un libro per raccontare la sua storia e quello che ha visto e, da questo libro, nasce il film.
La sua denuncia è una denuncia alla guerra in quanto tale, poiché non esistono né vincitori né vinti, ma solo vite umane tragicamente spezzate. Aureliano abbandona i centri sociali e lo schierarsi da una parte piuttosto che da un’altra: nessuno deve morire, né militari né iracheni. Quello che il film cerca di dire è che non c’è una morte giusta, perché la morte di un soldato italiano non è meno grave di quella di un bambino iracheno.
Il film, inevitabilmente, solleva molte polemiche perché ha un punto di vista scomodo sul problema della missione italiana in Iraq. Non c’è più spazio per posizioni stereotipate, pregiudizi, retorica o propaganda. Amedei racconta la guerra nella sua crudità e drammaticità, così come l’ha vissuta. Il risultato è che rimane solo con pochi amici, tra cui la compagna Claudia, a combattere perché venga detta la verità sulla situazione irachena. È un film che fa interrogare sulla utilità degli aiuti militari spediti all’estero. Spesso si ragiona in termini di massimizzazione del bene, del tipo “meglio qualche vita spezzata, ma un Paese pacificato”, per giustificare gli interventi militari, ma è così vero? È giusto sacrificare delle vite umane innocenti per il “peacekeeping”? Il fatto è che è molto più semplice rispondere quando tutto questo si trova a kilometri e kilometri di distanza, mentre non è così ovvio quando la vita in pericolo è la tua o quella di chi ami.
Camilla Pitino
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