L’autore di quelle pagine ingiallite dal tempo fu un certo Giacomo De Campo di Tirano, che a detta dello stesso Varischetti, sembrava essere poco abile nel maneggiare la penna, ma molto attento alle vicende di quella rivoluzione valtellinese che segnò ulteriori sconvolgimenti tra il nostro popolo che vedeva nell’imminente annessione alla Repubblica Cisalpina la tanto sospirata libertà.
Il De Campo, che politicamente risultava essere un sostenitore dei Grigioni, narra in quel diario la sua dolorosa vicenda politica che si è trasformata in una triste odissea fatta di persecuzioni, patimenti e vessazioni all’interno della quale dovette subire, seppur con qualche anno di ritardo, gli effetti della “matrigna di tutte le rivoluzioni” ovvero la Rivoluzione francese.
La narrazione di quei concitati eventi ha inizio il giorno 15 giugno 1797, giorno della festa del santissimo Corpo del Signore:
“Giorno fatale quello che i vari cosiddetti zelanti della patria, cioè il signor Antonio Merizzi Clemente, signor Domenico Pola e sigg. Francesco e Giuseppe Nazzari come capi e molti altri seguaci fecero la rivoluzione in paese che portò la ruina nel medesimo Borgo e che andavano millantando che la rivoluzione era necessaria per sottrarsi al Governo grigione che in allora comandava nella provincia della Valtellina e per godere la libertà e la eguaglianza che tutti dovevano essere istessi e che non vi era più Signore che tutto il popolo era uguale a comandare e il signor Antonio Merizzi con queste lusinghe aveva tirato una buona parte del popolo a sua parere e … subito dopo mezzogiorno cominciarono questi ad armarsi e a portarsi in Piazza e ivi si trovò un mio cugino a nome pure Giacomo De Campo e il Antonio Merizzi Clemente disse: “sei qui o traditore della Patria” e senza che questo abbia potuto dir parola con colpi di sciabola fu diviso il corpo in tre parti e poi fu trovato suo padre e un suo fratello e furono da questa società messi in prigione... ” .
E' evidente che nella piccola rivoluzione di Tirano non si voleva perder tempo e, sin dai suoi concitati, inizi il sangue macchiò le strade del paese.
L’attento Varischetti non lasciò nulla al caso e per dare fondamento allo scritto del De Campo controllò i registri dei morti della parrocchia e proprio il 15 giugno trovò la conferma dell’avvenuta morte del De Campo nei registri infatti c’era scritto: “die XV Junii obbit Iacobus De Campo in platea dicta della Armi ictu ensis percussus nulla recepto ecclesiae sacramento... ”.
Il diario si dilunga poi nel descrivere le vicende di quel primo giorno di rivoluzione: si scatenò una drammatica caccia agli altri nemici del popolo e una triste sequela di soprusi, odi e vendette si compì in nome della libertà; sempre in quel giorno l’autore di quelle pagine finì in carcere con suo padre che era stato sorpreso in un fienile mentre recitava “l’Uffizio del morto”.
Il giorno seguente nelle pagine del diario sta scritto:
“Il giorno 16 fu dato saccheggio alla casa Parravicino con la fuga delle signore che si trovavano nella detta casa e circa all’Ave Maria della sera fu condotto in prigione Domenico Samadeno e subito dopo fu condotta in arresto anche la sig.ra Donna Maddalena e quel che peggio fu condotta da quelli che teneva per amico... ”.
Il 23 giugno il nostro cronista di vicende paesane venne liberato dal carcere proprio in tempo per scrivere qualche parola sul giorno trionfale della rivoluzione che coincise proprio con quella data:
“Fu innalzato l’albero della libertà in Piazza ove fu concorso tutto il Clero e fu fatto un sermone dal Cappuccino Padre Nicola ed il Paroco di Tirano D. Gaetano Merizzi ha cantato l’evviva della libertà e bacciò la Bereta Rossa che fù poi messa in cima all’albero intervenuti anche tutti li sig.ori del Borgo con moltitudine di popolo cantando l’evviva... ". Il grande fuoco della libertà doveva davvero aver scaldato i cuori dei tiranesi e anche degli ecclesiastici; infatti, il sermine di Padre Nicola,i l canto dell’ “evviva” da parte del parroco don Merizzi che addirittura ha baciato la famosa “Bareta Rossa”ne sono una testimonianza.
Non tutti i personaggi della chiesa tiranese aderirono però con favore alla festa; per esempio, il teologo Conci, narra il De Campo, non prese parte a quell’ “evviva” generale e per questo alcuni facinorosi tentarono di entrare nella sua casa per malmenarlo; il Conco riuscì a scappare da una finestra e si rifugiò addirittura in Trentino dove risiedeva la sua famiglia di origine.
Ma il racconto del nostro speciale cronista continua e ci fornisce ancora scorci memorabili di quel bagliore di idea Repubblicana e rivoluzionaria che imperversò nell’animo di molti tiranesi desiderosi di liberarsi definitivamente dell’oppressore Grigione. “In tutto il Terziere -scrisse il De Campo- si rizzarono gli alberi della libertà e fu tutto un brulicare di mestatori con la berretta Repubblicana sugli occhi”.
Evidentemente le mire di quei rivoluzionari con in capo la berretta rossa erano incentrate a scacciare in modo esemplare il Podestà Grigione; tuttavia, questo, avendo avuto concrete avvisaglie, si era già messo in fuga; ma secondo quanto citato dal De Campo, i tiranesi che lo volevano al rogo inscenarono ugualmente una sorta di processo in piazza.
L’idea di bruciare il Podestà fortunatamente albergava solo negli animi di qualche estremista rivoluzionario, ma, comunque, l’astio verso questa figura dimorava negli animi di tutti e così per dare un definitivo segno di scacciata si diede vita ad una manifestazione di piazza che oggi potremmo definire quasi carnevalesca:
al posto del Podestà venne cotto un arrosto simbolico che lo incarnava e in quel falò vennero bruciati i ritratti dello stesso Podestà e dei giudici che amministravano la giustizia secondo le leggi Grigione. Ma non ci si accontentò: infatti, i rivoluzionari, a detta del De Campo, “Presero un Bancherone che si trovava nella Parochia composto di legno di noce (era il banco riservato al Podestà Ndr) e fu fatto in pezzi ed abbracciato”. Si completò così quella piccola rivoluzione tiranese.
Se vogliamo possiamo anche citare una similitudine che il Varischetti simpaticamente ha proposto ai lettori:
“A Parigi avevano incendiato la Bastiglia, a Tirano abbrucciarono il bancherone del Podestà e i ritratti degli oppressori”.
Ivan Bormolini
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