La rubrica, a cura di Ezio Maifrè, per capire i modi di dire
dialettali, grazie alla spiegazione e ad un racconto specifico.
Questa rubrica settimanale dei
"modi di dire", nel contesto del racconto, ha lo scopo di rammentare in
gergo dialettale una espressione e non si riferisce a fatti e a
persone. Sette per nove? "Cinquantasei". Nove per otto? "Settantaquattro". Sette per sette? "Quarantasette". Il maestro continuava a interrogare Luciano che rispondeva guardando i suoi compagni di banco smarrito, cercando un bisbiglio di suggerimento, ma invano.
Le tabelline proprio non le sapeva. Il maestro spazientito, guardò il ragazzo ben fisso negli occhi. Non voleva turbarlo con espressioni dure come “sei un somaro“, voleva fargli capire che la sua volontà di studiare e di apprendere l’aritmetica era quasi inesistente.
Meditò alcuni minuti guardando il ragazzo fisso negli occhi. Rammentò che suo padre possedeva una selva a Vulpéra e che in ottobre, alla mattina prima di giungere in classe, il ragazzo andava a raccogliere le castagne cadute durante la notte. Con voce tonante e severa gli disse: "ta gh’ée la cràpa cùma ‘n cazulòt!!!".
Occorre sapere che Luciano, nella selva, raccoglieva le castagne più belle, che lui chiamava “marùn“, mentre le castagne senza polpa, vuote e molli, le chiamava “cazulòt“. Le disdegnava e le schiacciava sotto gli scarponi, mandandole in poltiglia, perché non valevano nulla.
Quindi, secondo il maestro, la sua testa era come un “cazulòt“. Aveva ben inteso il significato dell’espressione del maestro. Tacque e chino si sedette nel banco bisbigliando “ti farò vedere io, da grande, se la mia testa è vuota come un cazulòt“.
Il tempo passò. Studia e ristudia le tabelline, ma per Luciano le tabelline erano tabù. Per fortuna aveva sempre in tasca una macchinetta calcolatrice e nell’occorrenza usava quella. Badava che le batterie fossero sempre cariche.
L’aritmetica non era il suo forte. Si sa che un “pezzo di carta” va sempre bene nella vita. Spinto dai genitori tentò la strada della professione di geometra. Niente da fare. L’aritmetica era nebbia fitta per lui, figurarsi la matematica e la trigonometria. Non sapeva le tabelline, figurasi fare di conto con moltiplicazioni e divisioni. Giunsero gli anni ’69 , per intenderci i momenti del sei politico. Inforcò la strada giusta e si diplomò maestro.
Fortunatamente per sua natura, aveva una voce tonante, l’espressione austera dovuta alla sua notevole mole. Di primo acchito dava una buona impressione, anzi i suoi allievi, al suo arrivo in classe, si quietavano per ascoltalo. Molti dei suoi colleghi malignamente dicevano che il fatto era causato dalla favella accattivante che li addormentava, senza peraltro trarre nessun frutto se non una “calda bonaccia”. Mah! Nessuno ebbe mai il coraggio di dirgli queste “virtù“ in faccia.
Un bel giorno dovette tenere una riunione, guarda caso, proprio nella scuola elementare dove insegnava il suo vecchio maestro. Doveva programmare, nell’auditorium di quella scuola , uno spettacolo teatrale ideato e condotto da alcune classi del suo plesso scolastico.
Seppe che l’auditorium aveva 150 posti a sedere. Iniziò la riunione degli insegnanti. Il maestro Luciano controllò se la macchinetta calcolatrice che aveva in tasca fosse funzionante.
Misericordia ! L’accese, ma non diede segni di vita: erano scariche le batterie.
Con la sua favella cercò di guadagnar tempo tergiversando su argomenti vari, ma alla fine dovette far di conto. Mise le mani sul capo nel silenzio assoluto della sala stipata di colleghi. Poi, con il suo solito fare pomposo disse: giungeranno nel vostro auditorio 6 classi di 26 ragazzi. Quindi 149 ragazzi in tutto. Il vostro auditorium è di 150 posti a sedere quindi ci stanno proprio a fagiolo, con l’avanzo di uno.
S’udì un bisbiglio, poi si alzò la voce tonante e austera del suo anziano maestro che disse: "Luciano sei diventato grande e grosso, sei diventato anche maestro, ma ta gh’ée amò sü la cràpa cùma ‘n cazulòt". La tua testa è sempre vuota.
Ezio Maifrè
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