... Ma qual’era il motivo per cui si negava l’accesso alle vigne?
La risposta è contenuta ancora nel testo della grida:
“... s’introduce (nel vignale) gente d’ogni sorte a rubbare impunemente dell’uva... ”. E’ dunque chiaro che gli accessi alle vigne erano vietati per impedire furti di uva; tuttavia, anche gli Statuti di Valtellina-Civili trattano la questione al Capitolo CCXV dove, oltre a menzionare il fatto di rubare le uve, si affermava che era vietato accedere alle vigne per evitare a chi le coltivava di vendemmiare l’uva migliore prima del tempo.
Dunque ci si premurava di tutelare in primo luogo la qualità del raccolto e non la quantità; non era necessario infatti porre delle regole sulla quantità in quanto queste erano già previste nel contratto di coltivazione a livello, dov’era prescritto che il massaro che coltivava una vigna a livello doveva dare al padrone della vigna stessa una ben determinata quantità di uve.
Ma torniamo al nostro Giuanìn de la vìgna; sicuramente allontanati i pericoli dovuti alle grandinate, avrà atteso con trepidazione il momento in cui il Magnifico Consiglio avrebbe dato il via alla vendemmia. Nel frattempo aveva preparato tutto con cura per l’imminente vendemmia: per prima cosa aveva riempito d’acqua i tenèi effettuando una preventiva battitura dei cerchi per meglio serrare le doghe, lasciando il liquido per alcuni giorni affinché queste ultime si unissero strettamente impedendo perdite di prodotto.
Fatto questo aveva preparato i gèrli e li cavàgni per portare l’uva, mettendo assieme a questi anche due piccoli cavagnìn, nella speranza, forse vana, di coinvolgere nella vendemmia anche i suoi due piccoli figli.
Affilati gli allora rudimentali rampelìn, aveva saldamente ancorato i tini al carro e la mattina in cui la porta dei Visoli venne aperta per ordine del Podestà attaccò la mucca al carro e via verso le vigne con tutta la famiglia al seguito: per l’occasione si erano uniti alla comitiva anche i due vecchi zii i barbi de porta Milanesa ‘l barba Natalìn e’l barba Bastìan”: chis’cc chilò i éra dùu lazarunàsc ma a l’ura del mesdì i maiàva cùma dùu purscèi e i bèveva ‘l vin del Giuanìn a muderadi brènti.
Dòpu mesdì i dùu barbi i éra ciòc e ‘n teli cavàgni i mèteva giù apèna föia e mìga grati de üga,an tàant,i tananài i fava sü na cantàda a la mòda dei muntagnùn;par furtüna che rèndeva ghèra li dùi àmadi de la via S. Càrlu la Lüisa e la Catàrina che li ulsàva mai la göba.
Alla sera il buon Giuanìn tornava a valle con il suo prezioso carico, consegnava al padrone l’uva che gli spettava e tornava a casa, il giorno dopo avrebbe vendemmiato nella sua vigna del Ravinàsc ed il frutto di quel raccolto sarebbe stato riversato nelle botti della sua cantina per produrre vino per sè e per la vendita. In questo modo avrebbe saldato qualche debito che aveva, in onore al detto: La vìgna l’è buna de fa i débit e anca de pagài.
Concludiamo qui questa storia un po’ fantasiosa e po’ reale; pensiamo solamente che la sera dopo la vendemmia presso la sua vigna, il nostro amico sarà stato stanco ma anche contento per aver colto i frutti del suo duro lavoro ed avrà vissuto le giornate della vendemmia come una festa.
A vendemmia conclusa, oggi come allora, non resta che aspettare che compiere l’operazione della torchiatura come facevano i nostri àaf e besàf ,che torchiavano le vinacce con torchi a corda azionati con molta più fatica rispetto a quelli in uso nei tempi più recenti.
Ivan Bormolini
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