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sabato 29 gennaio 2011

DELLE PAROLE STRANIERE

Se si apre un nostro dizionario si può notare già dalla prima pagina che le parole in esso contenute sono in gran parte derivanti, oltreché da una larga base della lingua latina, anche da vistose sovrapposizioni di altri idiomi: greco, alto antico tedesco, provenzale, francese, arabo, persino azteco, e via dicendo , con stratificazioni che rispecchiano la densità dei contatti politici, commerciali o solo semplicemente culturali avuti con quei popoli... (Di Franco Clementi)

In un certo senso, talora più d'un reperto archeologico, lo studio delle parole è già un documento, una traccia, una testimonianza della nostra storia.
Naturalmente questo ragionamento è valido non solo per l'italiano, ma anche per i linguaggi di tutti gli altri popoli in grazia del fatto che gli scambi non avvengono mai solo in un senso, ma sono reciproci. Talora può accadere curiosamente che una parola prestata ad altri ci ritorni indietro con diverso significato. Ad esempio la parola italiana "diporto" emigrata attraverso la Francia in Inghilterra, ci è ritornata in forma di "sport", mentre l'imperativo "tenete!" di chi sta per scagliarvi per gioco una palla, dopo aver sostato oltralpe come "tenéz " è da noi ridisceso come l'inglese "tennis". Più bizzarra la sorte del vocabolo "bidetto", che un tempo designava un "piccolo cavallo per bambini" (oggi diremmo "pony") restituitoci dai francesi come "bidet", che significa… ben altro tipo di… cavalcatura…

Tutto ciò rispecchia il movimento naturale, fisiologico di una lingua: entro questi limiti esso ha consentito finora all'Italiano una buona salute, senza eccessi di stravolgimenti e corruzioni, sì che noi ancor oggi nel 2000 siamo in grado di leggere e capire gli scritti di autori del '200 o del '300. Ad esempio il sonetto di Dante "Tanto gentile e tanto onesta pare…" può essere inteso tale e quale anche da persone non colte; ricchezza che non è data ad altri popoli, cui rimane ostico e incomprensibile il linguaggio dei loro avi di appena 200 o 300 anni fa.

Con l'avvento di un mondo supertecnologico e della globalizzazione la difesa della nostra lingua si è fatta oltremodo difficile. La cultura dominante anglo-sassone (in particolare, l'americana) sta imponendo a tutti un uso spropositato del suo linguaggio, attraverso i termini scientifici, quelli commerciali, musicali, sportivi e così via. Esso si avvantaggia anche per avere una struttura semplice, con vocaboli brevi, o abbreviati, al massimo di due sillabe, spesso connessi senza uso di preposizioni interposte, con una semplice lineetta; forme rapide che sembrano meglio adeguarsi ai ritmi del tipo di civiltà imperante.

Contro tale fenomeno, piaccia o dispiaccia, non c'è niente da fare. Ricordo che al tempo del Fascismo il regime cercò di resistere: gli unici risultati di quell'inutile, impari lotta furono l'introduzione di qualche termine italiano nel gioco del calcio. "Rigore" al posto di "penalty", "calcio d'angolo" al posto di "corner", "fuori gioco" al posto di off-side", "rete" invece di "goal". Anche l'Accademia di Francia ha cercato, da par suo, di porre barriere all'eccesso di americanismo nella lingua ("elaborateur" anziché "computer"…) ma non mi sembra che i risultati siano entusiasmanti.
Accettiamo dunque senza tragedie queste trasformazioni, allo stesso modo di come i Romani antichi subirono l'influsso della superiore cultura greca, o come l'intera Europa subì l'invasione delle parole italiane nel '500 per quanto riguarda le tecniche pittoriche, le notazioni musicali, le ricette culinarie, in campi ove avevamo una netta supremazia culturale.

Rimane però un'obiezione da fare. Finché una locuzione straniera ci viene imposta dai fatti e cioè da un oggetto della tecnologia che è stato inventato altrove o da una moda nata sotto altri cieli o da una nuova bevanda escogitata in lidi lontani, me ne sto buono e accetto l'ospite straniero. I tentativi di sostituzione, infatti, sono spesso ridicoli; le parole cocktail, film, pop corn, bar o il giapponese kamikaze, o le prendi come sono e sei subito capito oppure devi usare lunghe circonlocuzioni per spiegare cosa vuoi dire.
Ci sono però dei casi, e sono molto frequenti in cui la parola straniera non è indispensabile e viene pronunciata con scopi diversi dalla semplice comunicazione. Posso allora supporre che chi mi parla:

  1. cerchi di impressionarmi facendomi vedere che sa le lingue straniere e le movenze della conversazione internazionale (= è un vanitoso esibizionista)
  2. pensi che un vocabolo estero "faccia fino", sia di moda e quindi non voglia apparire (come direbbe lui) "Out" (= è uno snob)
  3. cerchi di mettermi in imbarazzo saggiando le mie facoltà di comprensione (= è un maleducato)
  4. usi parole straniere non per farmi capire meglio, ma per confondermi (= è un imbroglione, di cui è prudente diffidare).
  5. si senta inferiore agli stranieri e cerchi di imitarli (= è un imbecille).

Ad esempio, non è facile dire quale di queste distorsioni del pensiero abbia lanciato la moda di sostituire la parola italiana "giornata" con l'inglese "day". E così, senza alcuna necessità dato che venivano interessati solo cittadini italiani, abbiamo avuto un "Family day", un "Election day", un "Gay day" e perfino un "Vaffan-day"…

E ci si mette pure il Parlamento italiano che dovrebbe, almeno lui, usare la lingua nazionale nel corso delle sue attività ufficiali, e che ha sostituito quelle che una volta erano le "Interrogazioni al Governo" con il "Question time"…

Ho concluso: pardon, excuse me, bye-bye! ...


Franco Clementi

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