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sabato 15 gennaio 2011

DI ARCHEOLOGIA AGRICOLA

L'altro giorno sono andato a spasso per un sentiero che dalla cima di Via Masuccio, (il "Risciùn"), corre a mezza costa quasi parallelamente alla strada presente lungo la riva destra dell'Adda, e che, come questa, porta alla diga di Lovero... (Di Franco Clementi)


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Nel tratto iniziale il fondo è asfaltato, poi succede lo sterrato ed infine si continua su una pista stretta che raggiunge un bosco selvaggio. Il sentiero è antico, sicuramente plurisecolare, ma, negli ultimi decenni, di parte di esso si erano perdute le tracce perché il disuso e l' incuria avevano permesso che rovi, sterpi, e addirittura alberi di rispettabile taglia ne occupassero la sede.

Recentemente, con l'intervento dei Comuni e dei volontari di "Lega per l'ambiente", il percorso è stato ripristinato e consente, senza eccessiva difficoltà, di fare un'oretta di sano esercizio fisico, ma anche di qualche utile meditazione. Sì, meditazione: perché per quanto intricata sia la selva e per quanto scarsa possa essere la capacità d'osservazione del viandante, a costui non sembrerà mai di essere in un bosco qualsiasi. Qui fino a cinquant'anni fa erano fiorenti vigneti a terrazzo, con tutta la loro tipica architettura a muretti, a scalette, a baitelli, ad ammassi di pietre come corpi di balene, disposti a separare un campo dall'altro. Come le uguali vigne ancora attive, essi costituivano un elemento caratteristico di questo tratto di valle con i loro filari corti e ordinati, paralleli, correnti dall'alto in basso.

Ricordo la prima volta che li vidi: la neve copriva la parte meno in pendenza, lasciando grigi i muretti di sostegno, sì da dare un aspetto quasi zebrato ai fianchi del monte come in una pittura astratta di Mondrian. Ora delle viti non c'è più traccia. Qua e là su questi muri si apre un passaggio, una vecchia via d'ingresso, o s'appoggia una larga pietra a far da sedile o da appoggio; più in alto si osserva un solco per raccogliere l'acqua in una rustica vasca. Su tutto un manto di muschio, di erbe selvatiche, di foglie secche che parlano di un tempo passato destinato a non tornare mai più. Tutto l'insieme creato per trarre dal sole il massimo di luce e calore da imprigionare nella dolcezza dell'uva ora giace nell'ombra cupa degli alberi, alimentati da una terra che fu qui portata coi gerli.

E allora vengono alla mente tanti pensieri. Innanzitutto un senso di rispetto quasi religioso per tutti coloro che qui hanno lavorato, sudato, sperato in un raccolto felice; che hanno potato, legato i tralci, accarezzato i grappoli d'uva orgogliosi delle loro capacità di contadini. Mi sembra di essere in una sorta di cimitero, cimitero non di salme, ma cimitero delle grandi fatiche. Spostare tutte quelle pietre (alcune di gran peso), carreggiare terra, piantare pali, tendere i fili di ferro…e tutto senza il sussidio delle macchine d'oggi, dei trattori, delle teleferiche a motore. A un certo punto dal sentiero se ne stacca un altro che va verso l'alto. Il mio amico Pedrin mi dice: "Di lì si andava su per Baruffini . Ricordo la mia maestra, la signora Panizza che tutti i giorni di scuola, comunque la mandasse il tempo, partiva a piedi da Sernio e s'inerpicava su per queste coste. E noi, suoi alunni di Baruffini a sperare che qualche volta almeno la neve la trattenesse a casa… e invece lei, anche se ne veniva giù mezzo metro, arrivava puntuale…". Quanta "valtellinesità" in questo senso del dovere e del lavoro.

Una seconda riflessione. Perché non trasformare questo percorso in un vero e proprio "Parco di archeologia contadina", espansione esterna, all'aperto del Museo etnografico, allo stesso modo di come in pianura vecchi insediamenti manifatturieri ormai obsoleti si trasformano in siti di archeologia industriale?
I vigneti non sono stati per la Valtellina una coltura come le altre, essi ne hanno in qualche modo segnato non solo il paesaggio, ma anche la storia per la sua economia, per le sue legislazioni, i suoi commerci ed anche per gli appetiti che destavano nei popoli vicini.

Terza considerazione. Il sentiero nel bosco che ho descritto sarà lungo due o tre chilometri, ma ho l'impressione che col tempo sarà destinato ad allungarsi. Ormai da vari anni i vigneti tiranesi sembrano aver intonato quella parte dell'inno nazionale che canta:
" Stringiamoci a corte
siam pronti alla morte,
siam pronti a morir…!"
Quando si passa per le strade che salgono fra le coltivazioni ancora attive, si osserva che a curarle è molto spesso solo qualche anziano, appassionato di quest'attività e magari innamorato del vino fatto con le proprie mani "E' fatto solo con l'uva…qui non ci metto altro che uva…". Poi se si attacca discorso si viene a sapere che un figlio lavora in banca, un altro è giù a Milano, la moglie ha l'artrosi… Tra qualche anno che sarà di queste piante ora così gelosamente custodite? Cresceranno qui le betulle o i pioppi trèmuli o altre forme vegetali pioniere, prima di altre più stabili e perenni a farne un bosco? Di tutto questo panorama di vigneti che si vede ora, rimarrà solo qualche raro appezzamento più redditizio in mano a pochi appassionati o ad uno svizzero?

Recentemente lungo la strada che sale verso Baruffini hanno rubato due crocifissi che guardavano le colture: forse qualcuno ha creduto di ricavarci qualcosa come oggetto di artigianato "naif", o forse ha voluto fare una delle solite bravate. Certamente non pensava a ciò di cui queste immagini hanno fatto da testimoni. Mi racconta il mio amico "Gassman": "Sotto questa croce c'era una specie di appoggio dove la gente che saliva da Tirano posava il gerlo per riposare e tergere il sudore e qui la mia mamma ne approfittava per recitare una preghiera o per deporre un fiore di campo…".
Ora questi Cristi divelti sono stati sostituiti da altre copie nuove, che certamente continueranno a benedire le colture e la nostra città. Ma io non posso far a meno di pensare che questi furti siano anche il simbolo di un paesaggio tanto amato che mi viene a poco a poco rubato…

Franco Clementi

Storia

Il Cimitero delle fatiche dei nostri avi.

Inviato da mengu il 09:13
......vengono alla mente tanti pensieri. Innanzitutto un senso di rispetto quasi religioso per tutti coloro che qui hanno lavorato, sudato, sperato in un raccolto felice; che hanno potato, legato i tralci, accarezzato i grappoli d'uva orgogliosi delle loro capacità di contadini.....

Sono parole che andrebbero stilate su lapide e posata nei luoghi incolti e in rovina. Il nostro territorio va tutelato, occorre incentivare con ogni mezzo " i nuovi contadini " per il ripristino di questi territori.
Turismo si,ma anche grande attenzione al nostro ambiente. Impariamo dai vicini Svizzeri.

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