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venerdì 22 febbraio 2013

MODI DI DIRE: "L'è resta cùma chèl de la maschèrpa"

La rubrica, a cura di Ezio Maifrè, per capire i modi di dire dialettali, grazie alla spiegazione e ad un racconto specifico.
MODI DI DIRE: "L'è resta cùma chèl de la maschèrpa"
"Cooperweb" flickr.com (cc)
Questa rubrica settimanale dei "modi di dire", nel contesto del racconto, ha lo scopo di rammentare in gergo dialettale una espressione e non si riferisce a fatti e a persone. 
Capitò a Giuseppe e a Luigi. I due di Tirano, coscritti del ’39, con l’atleta Livio Berruti, si stavano recando in treno a Roma per assistere alle XVII Olimpiadi del 1960. L’atleta si sarebbe guadagnato in quell’Olimpiadi l’oro nei 200 metri piani con il tempo 20” 5.
Molti amici avevano raccomandato ai due di prestare molta attenzione ai manigoldi che in treno borseggiavano le persone o che le truffavano vendendo merce ritenuta di grande valore e di marca a poco prezzo.
Figurarsi! Certe raccomandazioni non si fanno a Giuseppe e a Luigi. Loro avevano fatto il militare negli Alpini in Val Venosta, dove notoriamente girano le aquile basse e l’uccello “padulo “vola all’altezza di… mulo. Avevano imparato a tenere gli occhi bene aperti e ad essere scaltri. Adottarono in quel viaggio una strategia. Nel portafogli decisero di tenere pochi spiccioli; la carta di identità e il biglietto del treno. Il resto, cioè il grosso del denaro, l’avevano in un sacchetto cucito nelle mutante, in basso, proprio appresso all’altra borsa. Avevano sentenziato: chi tocca le borse, se non femmina, è un uomo morto!
E in effetti si erano equipaggiati ben bene di soldi poiché notoriamente Roma è sempre stata una città cara e piena di belle donne. Partirono da Tirano. Cambiarono treno a Sondrio e alle 19.35 giunsero in stazione Centrale a Milano. Aspettarono la coincidenza del treno Express per Roma che partiva alle ore 22,45. Al mattino, alle ore 7,45 sarebbe arrivato alla stazione di Roma Termini.
Il treno era affollatissimo. Per passare da uno scompartimento all’altro in cerca di posto a sedere dovettero sollevare le valigie sopra il capo con il grave pericolo di perdere il controllo della borsa del denaro cucita nelle mutande. Ebbero però la fortuna di capire ancora la presenza della borsa grazie ad una signora che, nello struscio a fil di pelle nel corridoio del vagone, fece l’occhiolino a Giuseppe e a Luigi.
A fatica raggiunsero lo scomparto. Sistemarono le valigie. Si sedettero e si sistemarono le loro borse nei pantaloni senza destare sospetti. Nello scomparto erano in otto. Al loro lato due stranieri che sembravano essere degli inglesi. Di fronte a loro due ragazzi e appresso, due frati francescani. A Bologna il treno incominciò a svuotarsi. Scesero i due stranieri . A Firenze scesero i due ragazzi.
Giuseppe e Luigi rimasero soli con i due frati francescani.
Si guardarono in faccia. Erano stanchi morti. Giuseppe bisbigliò a Luigi: “ siamo in una botte di ferro. I due frati borbottano il rosario. Possiamo riposare tranquilli.”
I due si sdraiarono sul sedile per quel che poterono. Di nuovo si sistemarono le loro borse senza nascondere troppo i loro movimenti ( qui forse fu lo sbaglio ) e si appisolarono nel bisbiglio riposante del rosario dei frati francescani.
Uno stridio di freni ed ecco, nella notte, la voce metallica dell’altoparlante nella notte: “Stazione di Orvieto, fermata stazione di Orvieto “.
Giuseppe e Marco si svegliarono da un torpore indescrivibile. Quasi non riuscivano ad aprire gli occhi per il sonno. Nello scompartimento erano soli e discinti. I pantaloni erano calati sino alle ginocchia: iè restàa cùma chèl de la Maschèrpa!!! Dopo un poco si riebbero dal torpore e si guardarono intorno. Le loro valige erano sparite, così pure le loro borse cucite nelle mutande con i soldi. Si toccarono bene: tutte e due avevano solo una borsa, quella che madre natura gli aveva dato. Solo quella gli era stata salvata, per carità cristiana, dei due falsi frati. Si allacciarono alla belle e meglio i calzoni con la cordicella, ( lasciata forse per scherzo birbante dai falsi frati ) delle loro valigie e chiamarono il capotreno.
Il funzionario disse ai due: “ragazzi, non siete stati i soli ad essere borseggiati questa notte con il gas sonnifero. Alla stazione Termini venite con me, faremo la denuncia per il furto. Se siete rimasti senza soldi vi daranno il “ foglio di via “ e potrete tornare a casa”. Il giorno dopo gli amici seppero subito dell’avventura occorsa a Giuseppe e Luigi. La voce girò per il paese. Un giornale locale pubblicò la notizia a grossi titoli con: "Due alpini borseggiati sul treno per Roma". L’articolo inquietò molta gente. Dovette intervenire il sindaco per tranquillizzare la gente. Disse: “ Sì è vero, il fatto è capitato a due alpini svegli e scaltri, abituati al volo radente dell’aquila e all’uccello “padulo”. Gente, se dovete per forza viaggiate sui treni di notte, e se non volete essere borseggiati e restàa cùma chèl de la Maschèrpa, stupiti e increduli, uno dorma e l’altro vegli.
Ezio Maifrè

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