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venerdì 9 agosto 2013

TRIVIGNO, LA CÙLUM E LA VALLE DEL SANTO

Chi giunge in Trivigno, magnifica alpe del tiranese , oltre ad ammirare l’ampia valletta e i dolci pendii scavati dalle grandi glaciazioni, non potrà fare a meno di volgere lo sguardo in alto e vedrà “ la Cùlum “ (il colmo di Trivigno) come lo chiamavano i nostri avi, ora noto sulle mappe come monte Padrio. (Di E. Maifrè)
Questa cima è facilmente raggiungibile da Trivigno  con una agevole camminata di circa un’ora.  La cima della montagna della “ Cùlum “  è ampia, dolce, tonda e con un leggero avvallamento  che invita a soffermarsi per un picnic  e  godersi una vista mozzafiato. Da lassù la vista spazia alla Val Poschiavo, alle cime del Bernina, a quelle di tutta la Valtellina , fino a spingersi a quelle del Lago di Como, al monte Rosa, all’Adamello, a quelli del Tonale che si allacciano con quelli dell’Ortles.

Quando ero bambino, un anziano contadino del luogo mi disse che in una giornata serena si poteva scorgere dalla “Cùlum”  , con un buon cannocchiale, il luccichio dorato della Madonnina del Duomo di Milano.
Appena sotto la “Cùlum“  non sfuggirà alla vista un ampio vallone. Esso si stacca dal fianco occidentale del monte sino a lambire più sotto un’ ampia zona di prati acquitrinosi ( carècc ).
Da questo vallone nasce un torrente che, alimentando la zona acquitrinosa, si getta a valle sulla sinistra orografica formando,  nel corso dei secoli, il “ Vallone del Santo “ le cui irruenti acque confluiscono nell’Ogliolo a Campopiano poco sotto il paese di Aprica.

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La valle del Santo è legata ad una antica leggenda “ la leggenda della Valle del Santo “  proposta da Antonio Stefanini  di cui riporto il testo che si trova nella bella raccolta "Leggende e tradizioni della Val di Corteno da Edolo all’Aprica " di Giacomo Bianchi (1905-1996) edito, nel 2005, dalla La Compagnia della Stampa a Roccafranca (BS) e riportato alla pagina web  www.montagna.org/mitieleggende?page=6  nella sezione curiosità, miti e leggende a pag.6.

Conoscendo Trivigno, questa leggenda mi ha incuriosito. Io credo che in tutte le leggende ci sia qualcosa di vero o, se non di vero, almeno una fantasiosa interpretazione dello stato d’animo degli uomini  e delle cose di come va il Mondo.
Mi ha incuriosito il fatto che uno “stazzonasco” ( abitante di Stazzona in Valtellina )  avesse fatto un patto con il diavolo pur di deviare la rovinosa acqua che scendeva dalla “ Culùm “ e che imboccando  la valle di Trivigno proseguiva sino a formare il fosso alluvionale e il furioso torrente Rivalone  che si getta   nell’Adda  poco più a valle di Stazzona.

Molto prima e anche nel 1846  la furia di questo torrente causò gravi danni all’abitato di Stazzona distruggendo molte abitazioni.  Non vado oltre per non togliere la “ suspense “ di questa bella leggenda. Tutto sommato dalla leggenda si intuisce che per difendere i propri beni, in certi casi, occorre l’aiuto del diavolo.
Riporto di seguito il testo della leggenda invitando i lettori ad una bella scampagnata in Trivigno. Giunti lassù, rilassatevi e godetevi la vista della “conca di cielo “ dal piazzale della chiesetta di S. Gaetano.  Poi proseguite sino ai piedi del vallone della “Cùlum”  con una comoda strada sino a raggiungere il ponticello. Quell’acqua che vi scorre sotto non raggiunge più il fiume Adda in Valtellina  come cita la leggenda, ma giunge a volte calma , a volte rovinosa  nel torrente Ogliolo, poco sotto Aprica, nella parte bresciana. Questa “ deviazione” fu fatta con l’aiuto del diavolo e delle braccia del  nerboruto “stazzonasco” che vendette la sua anima  a Balzebù pur di per salvare  Stazzona e S.Rocco dalla furia rovinosa dalle acque. 

Ezio Maifrè

La leggenda della” Valle del Santo”
La Valle del Santo (Alpi valtellinesi) è così chiamato per un burrascoso torrente che, incassato fra due alte ripe rocciose, precipita dalla vetta del Padrio nella valletta cortenese, descrivendo un caratteristico angolo retto alle Scale, confluendo nello Ogliolo a Campopiano (Camplà), ingrossato delle acque provenienti dall’Aprica (SO).
Intorno ad esso fiorì una leggenda interessante, che risale a tempi assai remoti e che vive ancora nella tradizione. Narra questa che, un tempo, il terribile torrente scendesse in Valtellina, attraverso la valletta di Trivigno, arrecando continui ed ingenti danni ai villaggi di S. Rocco e di Stazzona.
Le popolazioni di queste terre che si erano viste, più volte, le loro case seppellite da valanghe di massi e di acqua, esasperate, pensarono di deviare il corso d’acqua verso la Val di Corteno.
Ma come riuscire nel gigantesco intento? Sarebbe stata necessaria l’opera di qualche diavolo dell’inferno. Tuttavia Stazzonesi e Sanrocchesi non si disarmarono, decisero di trovarsi, uomini e donne, la sera dell’11 novembre, armati di picconi, badili, zappe e travi, proprio sotto la sorgente dell’indiavolato torrente.
Erano appena cadute le tenebre, rese più nere da una massa di nebbie, che giravano vorticose, intorno alla vetta del Padrio, quando, uno stazzonese, ben piantato e con una spanna di pelo sul petto quasi nudo, comparve, per primo, nel luogo stabilito e incominciò a scavare, canticchiando felice come una pasqua. Da un momento all’altro, sarebbero giunti anche gli altri e, lavorando di buona lena, tutti insieme, qualcosa, verso l’alba, sarebbe stato fatto.
Mentre l’omone lavorava accanitamente, bestemmiando ad ogni piccola difficoltà che gli si presentava, ad un tratto, si vide, a pochi passi di distanza, un giovanotto bianco e rosso in faccia, sorridente, rivestito di un abito fatto di papaveri. Dai suoi occhi si sprigionavano, di quando in quando, ondate di scintille. Fattosi riconoscere subito per il demonio, si offrì d’attuare la gigantesca impresa, a patto che lo stazzonese gli vendesse l’anima.
Costui, sebbene fosse coraggioso come un lupo, provò un brivido, che dalla punta dei capelli scese fino al mignolo dei piedi; ma si riebbe subito dallo spavento e, impugnato in atto minaccioso, il badile a difesa, incominciò a raccapezzarsi e a studiare la proposta.
Poiché dell’anima s’era sempre curato poco, e l’aveva maltrattata come un cane rabbioso, girato lo sguardo intorno per osservare se fosse presente lo spirito della sua santa mamma, dopo ancora un momento di indecisione, accettò la proposta, stendendo timidamente la mano.
Belzebù gliela strinse fortemente, sghignazzando e si mise all’impresa. Sprizzando scintille da tutte la parti del corpo, si mise a spiccare enormi salti, poi sfoderato, da non si sa dove, un tridente che, pian piano s’allungò a dismisura, incominciò ad agitarlo verso Corteno.
Quasi all’istante, lungo il versante si aprì il nuovo letto del torrente, lungo il quale, le acque si gettarono urlando come belve, minacciando di distruggere Galleno. La popolazione, svegliata dal fracasso insolito, che s’avvicinava sempre più, ricorse a S. Martino, protettore della Valletta. Uomini donne e bambini erano inginocchiati sulle soglie delle case, invocando e piangendo.
Il Santo non fu sordo alle preghiere dei suoi fedeli. Apparso in un oceano di luce a cavallo di un superbo destriero bianco, in groppa ad un eminente «dosso» ad occidente di Plèr, detto poi «Dosso del Santo», rischiarando a giorno il cielo e la terra, comandò al torrente di volgersi verso sera.
Al suo cenno, le acque deviarono nel luogo indicato, dove lentamente si aprirono, tra la roccia il nuovo letto, profondo e misterioso, ad angolo retto col vertice alle Scale e l’apertura verso mattina. Nelle Rocce del Dosso del Santo il popolo scorge ancora le impronte lasciate dai ferri del cavallo.
Le mamme si inginocchiano sopra di esse e le baciano e le fanno baciare ai loro piccoli, i quali, commossi dalla bella leggenda santa, d’estate coprono di garofani silvestri, colti saltellando sulle rocce, le impronte dei ferri del cavallo di San Martino, protettore della ridente valletta prealpina.
E là sul luogo dove l’uomo poco pio vendette l’anima a Belzebù, si scorge una voragine, che un tempo doveva essere immane. Ora è per tre quarti ripiena di sassi, ghiaia e terriccio. In essa sprofondarono il diavolo vestito di rosso, dalla cera bianca e rossa e l’uomo nerboruto di Stazzona, con un palmo di pelo sporgente dal petto, che si curava poco dell’anima.
Sprofondarono fra un boato terribile che pareva un tuono, ed un visibilio di scintille che a ventaglio salivano fino alle stelle, che, essendo state fugate nubi e nebbie, dalla luce del Santo, fiorivano tante, tantissime nel giardino del cielo.

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