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martedì 21 gennaio 2014

"I SENZA LAVORO SONO EMARGINATI: RIDURRE GLI ORARI E RIPARTIRE IL LAVORO"

20 gennaio 2014 - L’articolo pubblicato a firma di Guglielmo Giumelli (vedi La Provincia di Sondrio del 16 gennaio 2014) dal titolo “Nuove tecnologie e lavoro che manca”, mi sollecita una riflessione sul tema, tuttaltro che peregrino. (Di Valerio Dalle Grave)

In una spirale perversa, mentre il numero degli occupati crolla, le condizioni di lavoro e retributive peggiorano. Secondo i dati ISTAT in Italia, dall’inizio della crisi (2007) si sono persi un milione e 800 mila posti di lavoro e la curva dei salari ha fatto registrare una analoga discesa verso il basso. Non c’è famiglia che in qualche modo non sia toccata dal problema.
Fatto sta che le cifre della disoccupazione “si impennano”. Infatti, se si considerano i disoccupati ufficiali siamo ormai oltre i tre milioni. Se a questi si assommano i cassaintegrati senza prospettive di rientro, gli scoraggiati e i giovani che non studiano e non lavorano, si arriva a oltre il doppio. Ciò significa che un italiano su dieci è tagliato fuori dal lavoro.
Essere senza lavoro non significa necessariamente non far nulla o morire di fame, come succedeva nella società inglese dell’ottocento, raccontata magistralmente da Charles Dickens in Oliver Twist, ma significa sempre “essere esclusi”, emarginati. Nel corso degli ultimi decenni molte cose concernenti il lavoro sono cambiate. E’ cambiata la cultura del lavoro, l’organizzazione del lavoro. E’ cambiato il rapporto tra l’uomo e il lavoro. Però il lavoro resta un elemento fondamentale di identità, di appartenenza, di cittadinanza.
La stessa etica religiosa sottolinea che il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività connessa al mantenimento della vita non può chiamarsi lavoro. Solo l’uomo ne è capace, solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé il segno di un uomo operante in una comunità di persone e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce in un certo senso la sua natura. Il lavoro quindi, è una condizione imprescindibile di identità, di cittadinanza, di appartenenza all’umanità. Per tutte queste ragioni la disoccupazione non è solo un gravissimo problema economico e sociale, ma anche morale. E se non viene affrontato con misure credibili, adeguate e efficaci la coesione sociale, sempre invocata, diventa una chimera.
La domanda che viene spontanea è: come si fa ad affrontare questo problema? La base del ragionamento da cui bisogna partire è che la disoccupazione è una specie di male oscuro e che non c’è abbastanza lavoro per tutti quelli che vorrebbero lavorare.
Questo non solo per effetto della crisi, ma anche per gli aumenti di produttività realizzati e attesi dagli investimenti tecnologici e organizzativi.
Teniamo presente che a metà del secolo scorso, quando le meccanizzazioni e le innovazioni produttive hanno determinato un esubero di manodopera in agricoltura, abbiamo pensato: pazienza vorrà dire che lavoreremo nell’industria.
Poi anche quando nell’industria ha cominciato a profilarsi lo stesso fenomeno (automatizzazione degli impianti, introduzione della robotica), abbiamo ritenuto che l’occupazione sarebbe stata assorbita dai servizi. Ma ora, i servizi (esclusi quelli alla persona), incominciano a produrre da soli. Si pensi al sistema postale: gran parte della posta non viene più recapitata dal postino perché viene scambiata via computer. Nei call-center al posto dell’operatore c’è un disco; quando abbiamo bisogno di ritirare soldi dal nostro conto corrente non abbiamo più bisogno dell’impiegato allo sportello, è sufficiente servirsi dello sportello bancomat , e così via.
In una situazione del genere è evidente che i cerotti messi in atto dal governo per tamponare la situazione servono a poco o nulla.
A questo punto si ripropone la domanda: allora cosa fare? La risposta non è molto facile e io mi aggrappo alla tesi diffusa già da qualche tempo da Pierre Carniti, (già segretario generale della CISL) che condivido in pieno.
Carniti osserva che “per una risposta davvero all’altezza della sfida non c’è altra via che ridurre gli orari e ripartire il lavoro tra tutti quelli che vorrebbero lavorare”. E’ un metodo già usato nel secolo scorso, sia pure con ritmi e intensità diverse a seconda delle circostanze. Non si tratta di sguardi nostalgici verso un passato che non tornerà mai più. Se stiamo a raccontarci storielle nostalgiche, come spesso siamo indotti a fare, non riusciremo mai ad affrontare i problemi con cui dobbiamo misurarci nel presente. “Il passato è un paese straniero e non possiamo tornarci”, osserva Carniti, “ma c’è qualcosa di peggio che idealizzare il passato ed è dimenticarlo”.
Questo vale anche per le politiche che sono state fatte per contrastare la disoccupazione. Non dobbiamo infatti dimenticare che circa un secolo fa siamo partiti da orari di lavoro di 72 ore settimanali; cioè 12 ore al giorno per sei giorni alla settimana. Nel giro di cento anni gli orari di lavoro sono stati dimezzati senza che questo sviluppo provocasse i disastri ogni volta preannunciati dai catastrofisti.
Anzi, la ricchezza globale e individuale è costantemente aumentata fino ad arrivare alla decuplicazione. A conferma che non è mai esistita, e non esiste tutt’ora, alcuna correlazione negativa tra diminuzione degli orari e crescita.
Consapevoli di questo, sostiene Carniti, “occorre mettere in campo interventi che contrastino un ulteriore aumento della disoccupazione e misure effettivamente in grado di aumentare l’occupazione. Per esempio ricorrendo ai contratti di solidarietà, incoraggiandoli anche con misure adeguate di finanza pubblica. Questo lo può fare il governo, anziché continuare a finanziare sussidi in deroga senza che ciò sia in qualche modo utile per frenare la disoccupazione”.
Per quanto riguarda l’aumento della occupazione Carniti indica la strada, come sopra detto, della “riduzione degli orari e della ripartizione del lavoro. Che dovrebbe avvenire con accordi tra le parti sociali, di durata definita e rinnovabili, in base alle esigenze e alla situazione del lavoro”. Inoltre, Carniti invita caldamente le Parti Sociali e il Governo a chiedere al Parlamento la abrogazione immediata della legge, voluta dal ministro Sacconi, (che definisce scriteriata) per incentivare il lavoro straordinario.
In conclusione mi pare importante rilevare che tra il prof. Giumelli e Carniti ci siano vedute comuni su un tema di estrema attualità. Il problema è quello del “fare” per contrastare i pregiudizi e promuovere un indispensabile cambiamento di cultura, di mentalità e di abitudini.
Come cittadini di una società libera e democratica abbiamo il dovere di guardare i problemi che ci affliggono con occhio critico e quando ci accorgiamo che qualcosa non va abbiamo il dovere di agire di conseguenza.
Valerio Dalle Grave

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