TIRANO – Prima mostra personale di Ario Lembo dal titolo
“Oniricum Imaginatorium”
a Palazzo Foppoli piazzetta Quadrio a Tirano
dal 22 al 31 dicembre. Dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00
Lembo Ario
“Oniricum Imaginatorium”
a Palazzo Foppoli piazzetta Quadrio a Tirano
dal 22 al 31 dicembre. Dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00
Lembo Ario
Mi chiamo Ario Lembo e sono nato a Chiavenna il 18 maggio 1986. La passione per il disegno e la voglia di creare mi hanno guidato dalla prima infanzia. Mi reputo piuttosto fortunato perché non ho mai incontrato ostacoli in questo campo: sono cresciuto con persone che hanno stimolato la mia creatività su vari livelli. Primo tra tutti mio zio Rocco Coronese, che, oltre ad essere stato un vero artista e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone, fu un uomo buono e di sani principi.
Mi ricordo un ventoso autunno di molti anni fa, avrò avuto dieci anni. Stavamo passeggiando sul ponte che collega Mese e Chiavenna quando, ad un certo punto, mio zio si piegò e raccolse un sasso dalla forma bizzarra. Contemplandolo, col suo singolare modo di stupirsi, disse: “ Questo è bello! Guarda che meraviglia!” Dava l’impressione di aver scoperto un tesoro inestimabile. A me pareva solamente un semplice sasso. “La cosa importante è l’idea capisci?” aggiunse con un’ enfasi poetica e con gli occhi ardenti di quella fiamma che poche persone posseggono. Poi si mise la pietra nella tasca del cappotto e continuammo a camminare in silenzio. Ricordo che annuii, ma, in realtà, credo di aver capito da poco quello che intendeva.
Devo molto, ovviamente, anche ai miei genitori. Mia madre si è sempre dilettata con gli acquarelli e mio padre possedeva e possiede tutt’ora diversi quadri e stampe di Lorenzo Viani e di altri artisti meno famosi ma non per questo meno meritevoli. Ad ogni modo, la mia maggior fonte di ispirazione sono stati gli innumerevoli fumetti collezionati da mio padre nel corso della gioventù. Il mio sogno di bambino era quello di diventare un fumettista al pari del mitico Jacovitti. Ricordo che mi divertivo un mondo a copiare le tavole del maestro dei salami e a lavoro svolto chiedevo una critica a mio padre. Sono sempre stato molto severo nel giudicarmi e continuo ad esserlo.
Mi succede raramente di terminare una tela ed esserne pienamente soddisfatto: trovo sempre qualcosa che vorrei migliorare, un dettaglio fuori posto. Mi rendo conto che in questo campo, come in molti altri, è difficile essere obbiettivi. Ad alcuni un’opera può non piacere affatto e ad altri piacere moltissimo. A volte, perfino lo stesso quadro, se preso in considerazione a distanza di mesi, può trasmettermi emozioni contrastanti. A prima vista può colpirmi positivamente per poi sembrare insignificante tempo dopo. Riguardo a questa evidenza, mi sono fatto quest’idea: dato che il cambiamento è perpetuo, l’ obbiettività di per sé non esiste e quindi dire che una cosa è bella e l’altra è brutta non significa molto. Per ora penso questo, domani chissà…comunque sono piuttosto sicuro del fatto che dipingere e buttare fuori quello che si ha dentro sia in qualche modo terapeutico. Contemplare e interpretare quello che si è creato fa scoprire come siamo dentro e quindi rivela delle parti nascoste di noi stessi.
CRITICA
Ario Lembo è un artista. Se questa affermazione a me appare come certa, più difficile, in effetti, è delimitare il perimetro fumoso del suo complemento. Cosa infatti significa essere “un artista”, nel tempo dell’arte 2.0…?
Se risaliamo come salmoni il ruscello dei giorni, ci accorgiamo che, appena un paio d’anse del fiume fa, era tutto molto più semplice. L’arte corrispondeva a una sorta di spoletta tra il mondo impalpabile delle idee (spesso governate da sistemi ideologici, di potere oppure religiosi, che non di rado coincidevano) e quello ruvido e sensibile del mondo. Contrariamente a quanto si aspettava Platone, le idee erano però la ruga astratta dei rapporti – assai concreti e interessati – su questa terra. Quindi artista era colui che sapeva riportare al suolo, traducendolo in figura, il palloncino dello Spirito (dei tempi).
La qualità artistica era così proporzionale alla perizia dell’esecuzione: tanto più fedele era lo specchio all’invisibile soggetto, tanto più meritevole di plauso. Un rapporto già implicato nella radice nominale del termine: ars, fare.
Tutto fila dunque liscio fino alla metà dell’Ottocento, quando, Boom!, compare la fotografia. Quindi, più tardi, cinema, pubblicità, televisione. Diventano questi i nuovi correlati con cui si esprime il mondo delle idee, i nuovi servi di scena. E all’artista è come se levassero la sedia da sotto il sedere. Crash.
Da quel momento in poi inizia una sorta di diaspora nei regni del possibile. In cui gli artisti, spiriti liberi che patiscono l’angustia dell’immaginario coevo, cercano di scovare un mondo figurale alternativo, che coincide spesso con la propria personale ossessione. Se infatti i più si accontentano del regime cine-televisivo, della nuova spiritualità che filtra nella flebo del marketing, passa dalle cattedrali dei consumi e gorgoglia nelle condutture del web, gli artisti no, fanno saltare il banco o semplicemente se ne tornano a casa ruminando tra sé e sé qualcosa. E ciò che almanaccano discosti dal coro, come Cristoforo Colombo prima di esporre il suo monumentale “affresco” ai posteri, è l’esistenza di un mondo, di un Altro Mondo, dietro alla minuscola biglia che rotola nel cielo.
Per questo scrivevo che Ario Lembo è un artista, uno di quelli veri, indipendentemente dalla qualità della sua opera. Le sue figure spiraliformi, impalpabili e rarefatte come l’aria di cui è composto il suo eccentrico nome, sono con tutta evidenza il segno tangibile di un’ossessione, che in questo tempo è l’unica tautologica garanzia per l’arte. Come a dire che quello che vede non gli basta, non è Tutto. Mentre ciò che ancora non riesce a scorgere con esattezza, per uno di quei paradossi di cui è fatta l’ispirazione, è proprio ciò che vuole mostrare, condividere, forse per farne lui stesso esperienza vissuta.
Credo che da questa incertezza costitutiva, quasi metafisica, discenda anche il tratto vagamente naif delle sue figure, che non ne limita affatto il valore. E’ in fondo la differenza che passa tra un concertista classico – a cui non è perdonato alcun inciampo sonoro, alcuna digressione personale – e un cantautore pop. Ecco, Ario Lembo è uno che compone, canta, accorda e suona le sue canzoni. Ma lo fa sulla tela, lo fa con vera e genuina ossessione.
Guido Bussoli
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