Una tradizione che durava da oltre 160 anni voleva che sulla Cattedra di Pietro si alternasse un pontefice corpulento e con la lettera “R” nel cognome ad uno magro e senza “R”... (Di Franco Clementi)
Difatti, ai tarchiati Mastai Ferretti (Pio IX), Sarto (Pio X), Ratti (Pio XI) e Roncalli (Giovanni XXIII) si erano intercalati gli esili Pecci (Leone XIII), Della Chiesa (Benedetto XV), Pacelli (Pio XII) e Montini (Paolo VI).
Dopo quest’ultimo, quindi, il Sacro Collegio dei Cardinali, nel Conclave del 1978, avrebbe dovuto scegliere un Santo Padre ornato di qualche pinguedine e con la “R” nel cognome.
Macché! Quei benedetti Principi della Chiesa andarono a scegliere un Luciani, uomo di taglia del tutto normale, né magro né grasso, e per giunta con un cognome privo di ogni sonora vibrazione.
Ma furono puniti e appena cinque settimane dopo dovettero di nuovo riunirsi ad eleggere un altro Pontefice.
Stavolta i Cardinali, visto che avevano già fatto “trenta”, vollero fare anche il “trentuno”: e non bastando loro aver interrotto una tradizione che durava dal 1846, ne vollero infrangere un’altra vecchia addirittura di quattro secoli, quella che imponeva di nominare Papa un italiano. E fu eletto Karol Wojtila, polacco.
In realtà, più che su questioni di bizzarre coincidenze o di divertenti statistiche, lo Spirito Santo aveva voluto manifestarsi nella necessità di rompere certe incrostazioni curiali e di dare alla Chiesa un respiro più ampio del chiuso orto italico, in linea col rinnovamento voluto dal Concilio.
L’impressione fu grande, soprattutto in Italia, ove un po’ tutti, cattolici o agnostici o addirittura miscredenti s’erano abituati a considerare il Papa come “cosa nostra”. Ma la naturale simpatia dell’eletto, la sua appartenenza ad una Nazione che tanto aveva sofferto, la fama di uomo santo ed impavido lo fecero ben presto accettare da tutti con entusiasmo, insieme con la sua imperfetta pronuncia della nostra lingua. In particolare lungo fu l’applauso con cui l’accolse il popolo di Roma, da sempre abituato ad accettare personaggi d’ogni razza e colore.
Ho visto per la prima volta Giovanni Paolo II nella domenica di Pentecoste del 1983 a Milano, dove era arrivato per la visita ufficiale della Diocesi ambrosiana.
Per l’occasione a Tirano fu allestito un “pullman” per chi volesse partecipare nel capoluogo lombardo ad una grande manifestazione in suo onore all’aperto.
Ed infatti ci portarono in mezzo a uno spiazzo della periferia milanese, mi pare verso Lorenteggio, là dove le case e la campagna si compenetrano come le acque dolci e le salate alla foce di un fiume. E ben si conviene parlare di acque, perché veniva giù una pioggia ininterrotta che faceva traboccare i tombini e ci costringeva in un mare di fango in mezzo a prati simili a risaie. Sarebbe stato difficile, volendo avvicinare questa pioggia alla cerimonia sacra cui assistevamo, parlare di benedizione del Cielo.
Intanto in attesa del Pontefice si levavano dagli altoparlanti inni sacri, rosari, preghiere, devozioni ; alfine arrivò Papa Wojtila. Lo vedevo appena tra gli ombrelli, sotto il baldacchino che lo riparava, a più di cento metri di distanza. Disse qualche parola di circostanza che confesso di non ricordare anche perché dovevo stare attento ai piedi che pescavano in una pozzanghera.
A un certo punto si sentì un brusio dalla folla, seguito da applausi ; accanto al Pontefice era apparsa una donnetta, una figurina bianca. Io non capivo chi fosse, quando qualcuno gridò : “E’ Madre Teresa di Calcutta !” E allora anch’io mi misi a battere le mani...
Dopo un paio d’ore tornammo al pullman ; l’autista ci venne incontro preoccupato : “Ho ascoltato la radio! Dice che a Tresenda c’è stata una frana... ci sono dei morti... la strada è interrotta, chissà se riusciremo a passare...”.
In quanto al tornare, tornammo, passando sul ponte della Falk; ma i canti allegri dell’andata nel costeggiare i detriti che seppellivano tanti poveretti si mutarono in pietose preghiere, quasi che noi pellegrini volessimo in qualche modo trasferire la benedizione appena ricevuta dal Santo Padre, su quegli sfortunati fratelli.
Franco Clementi
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