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sabato 5 maggio 2012

L'ULTIMO CAPITOLO: LA MORTE

ULTIMA PARTE - Da tempo l’ombra oscura della morte aveva segnato gli animi di “quelli della Selva”, pareva quasi che una tristezza con cui convivere avesse segnato i loro volti; fu il turno della “ Mutina” , seguita non so come e non so per quale segno strano del destino dalla morte del figlio, il Primo, il sacrista della parrocchiale di San Pietro Martire… (Di Ivan Bormolini)
... Madre e figlio a darsi un’ addio a distanza di pochi mesi.
Per i mei avi fu un colpo duro: abitavano porta a porta, insieme avevano condiviso una vita di lavoro e di ricordi.
Per me fu la presa di coscienza che qualcosa si stava inclinando in quel mondo fatto di cose semplici; i miei avi, iniziavano a parlare di morte, nominando per la prima volta quella oscura parola. E' vero, mi si potrà contestare, che ci si doveva pensare, farci l’abitudine, ma in cuor mio, ho sempre cercato di allontanare quell’evento.

LAMPEGGIANTI BLU SULLA STRADA PER BARUFFINI (ANDATA E RITORNO VERSO IL MORELLI)
15 AGOSTO 2001: vi sembrerà strano, vi ho parlato nelle righe introduttive di un incantesimo di vita che è andato spezzandosi; effettivamente, quelle feste di ferragosto, quelle semplici adunate famigliari della domenica, avevano da poco cessato di far breccia negli animi di “Quelli della Selva”; la vecchia, pur vissuta con serenità, aveva sminuito quella sorta di collante che teneva unite tante famiglie, forse appunto la morte fu un deterrente.
Vennero a mancare quei forestieri estivi, uno per uno: il Domenico, il Luigi…
Morirono in poco tempo altri componenti di quel gruppo unito davanti a un “ciapel” di vino e ad un mazzo di carte; mancavano le voci per intonare canti d’altri tempi; mancava la vita e la vitalità: e tutti ce ne accorgemmo!!!
Fatto sta che quel 15 agosto 2001, la fiamma viva di quella piastra, piena di carne, verdure e quant’altro non si accese. Erano rimasti in pochi, avrebbero vissuto una festa di ricordi, per cui, la tradizione in quell’anno finì.
Da qualche tempo il mio avo non stava bene, era spesso sdraiato sul divanetto del salottino, poche le sue uscite verso quel sentiero degli orti, rarissime le sue visite alla vigna; tutto o quasi era in mano ai figli e all’ava che per nulla demordeva anche se preoccupata per quell’uomo un tempo pieno di vita e che ora faticava a fare le cose più semplici.
La vecchiaia e la malattia, un mix che proprio quel giorno di ferragosto lo portarono ad un inevitabile quanto duro tracollo. Lo avevo visto il giorno prima, poco o nulla lasciava presagire ad un ricovero d’urgenza; ce la faceva ancora a raccontare e raccontarsi, era seduto su quella panchina in terrazza e colloquiava con chi passava.
In quella giornata di ferragosto ero alle Canali ospite degli zii di mia moglie, una giornata di festa, insomma il tradizionale ferragosto in montagna; da quella casa si vedeva perfettamente Baruffini e più volte durante quella giornata ho pensato a quelle feste delle contrada.
La sera, davanti al falò, non so perché il mio sguardo è ancora andato a cercare Baruffini, dalla strada che da Tirano porta nella soliva frazione. I lampeggianti blu di un’ambulanza mi colpirono, li seguii durante la salita; arrivata alle prime case di Baruffini,non vidi più quel mezzo di soccorso: controllai con attenzione che non andasse verso le contrade superiori, ma niente, uno strano senso di inquietudine, una sensazione che quell’ambulanza andasse in via Selva mi colpì.
Passava il tempo, momenti lunghi, circa mezz’ora, e poi la discesa veloce: da quel monte si gode di una vista stupenda che mi ha permesso di vedere quei lampeggianti correre verso il Morelli.
Nessuno in quella sera mi informò che su quell’ambulanza c’era il mio avo, solo la mattina dopo mia mamma mi chiamò per dirmi che quell’omino, era in rianimazione.
Si riprese ancora, ma era necessario che rimanesse in ospedale, giorno dopo giorno comunque si vedeva, si percepiva, che non avrebbe più fatto ritorno in quella sua casa della Selva.
Passarono lunghi giorni e lunghe notti, l’avo, sempre assistito dai famigliari, aveva pochissime forze; flebile era la voce di quel cantore, pochi i sorrisi sotto i baffetti.
La notte del 27 settembre c’era mio padre in ospedale, i segnali che quella vita si stava spegnendo erano evidenti da qualche giorno. Giaceva sul letto, mio padre sulla poltrona: d’un tratto alzò debolmente la mano e salutò per l’ultima volta.
Il mio primo pensiero corse all’ava, una telefonata mi fece percepire nuovamente la forza di quella donna; era lei, quella che aveva passato una vita con l’avo che rincuorava figli e nipoti.
Nel giorno e nelle ore che ci separavano dal funerale non la vidi versare una lacrima, ma sapevo che dentro di se la sofferenza era grande, immane, eppure non mostrava debolezza alcuna.
Lasciò per l’ultima volta la sua casa di via Selva, l’avo, un sabato mattina piovoso; tanta la gente che volle essere presente nella parrocchiale, un funerale concelebrato, don Tullio e don Giacomo Santelli.
Nessuno se lo aspettava, ma quel buon prete, che con gli avi e quelli della Selva aveva passato momenti felici e momenti difficili, volle esserci a dare l’ultimo saluto al cantore.
L’ultimo viaggio verso il cimitero, un turbine di pensieri, quante volte l’avo aveva percorso quella strada con la gerla in spalla, quante volte aveva preso parte alla processione della Madonna del Carmine, a quanti funerali aveva cantato quell’intenso Eterno riposo. Ora tutto era finito, la bara sotto pochi metri di terra e il pianto intenso dell’ava: in quel momento crollò l’umile donnina della Selva sotto il peso dei ricordi e dei vivi sentimenti.
MA LA VITA CONTINUAVA
Dopo la morte dell’avo la vita di sempre riprese; tanti i ricordi legati a quell’umile uomo, ma non ci si doveva perdere d’animo anche se su quella sedia in cucina o in quella panchina in piazzetta mancava una figura in più.
L’ava era l’impulso vitale, non si scoraggiò e riprese la sua vita contadina di sempre: campi, orti, e vigne, non si fermava mai nonostante la sua età; godeva di una salute di ferro.
Vani i tentativi da parte di tutti noi di dirle che non era necessario seminare tutte quelle patate o coltivare orti impervi; lei voleva che fosse così e ribadiva che la verdura non si doveva andare a comprare, ma si doveva godere quella di casa.
Passarono gli anni e le stagioni, arrivò la pronipote, la prima pronipote. La festeggiò con il suo incondizionato affetto, i suoi occhi brillavano di vita tanto che nulla avrebbe lasciato presagire che alla fine di quel mese di marzo del 2005 in una sera come tante, il suo grande cuore avrebbe cessato di battere.
Una sera come tante dicevo, e una giornata quella del 29 marzo uguale a tutte le altre, la primavera vedeva impegnata l’ava nei campi; non cercava l’aiuto di nessuno se non per i lavori più pesanti: diceva che per lei era un passatempo badare agli orti, alle galline e ai conigli.
In quel giorno andò negli orti a seminare, ma al suo ritorno disse alle amiche della contrada di sentirsi un po’ stanca e che comunque dopo cena quel terzetto o quartetto di vedove si sarebbe ritrovato nella cucina dell’ava per una partita a carte o per parlare un po’ del più e del meno.
Dopo cena, ci riferì la Rina, quella luce della cucina si spense presto, le amiche pensarono che l’ava si fosse coricata anzitempo, visto anche quella stanchezza che lamentava.
Certo che nulla lasciava presagire a nessuno che quello stato fosse l’anticamera della morte.
E’ probabile che quella stanchezza strana la indusse a coricarsi e che quel malessere aumentò all’improvviso; infatti, sul tavolo, c’era il mazzo di carte pronto per la partita, ma l’ava spense la luce e si recò in camera. Cadde a terra sul ciglio del letto: quel cuore generoso sempre propenso ad aiutare gli altri, e che ha sempre battuto forte per tutta la grande famiglia smise di battere.
Oggi mi rimane il ricordo vivo di quella donna che non esitava mai nel dimostrare un affetto forte e sincero; ricordo e faccio tesoro di ciò che in vita mi ha insegnato con semplicità e non c’è giorno che non pensi agli avi.
Ivan Bormolini

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