Questa rubrica settimanale dei "modi di dire", nel contesto del racconto, ha lo scopo di rammentare in gergo dialettale una espressione e non si riferisce a fatti e a persone.
Enrico l’aveva sposata a vent’anni. Rosina era una bella ragazza valtellinese, dolce affabile, allegra. Era una “grosina “ e , sebbene alcune donne “grosine”, in questi ultimi decenni hanno smarrito alcune caratteristiche che erano vanto e virtù del paese, Rosina le aveva mantenute. Forse è bene rammentare, per coloro che non conoscono la laboriosità, l’attaccamento alla famiglia e anche la bellezza della ragazze di Grosio, una leggenda. Prima però conviene citare un detto “ birichino “ che è passato, a torto o a ragione, dalla bocca di molti valligiani: a Grosio lavorano solo le donne “.
Ora si può raccontare la leggenda tramandata “ bocca a bocca” da generazioni e in verità confermata dai dolci lineamenti orientali di talune donne: si narra che le donne di Grosio sarebbero di origine orientale .
La cosa appare credibile e confermata anche dai costumi tradizionali femminili con la gonna di panno finemente pieghettata, il grembiule in seta, con maglie e corsetti finemente lavorati a filigrana d’oro, caratteristica quasi unica in Valle.
Si racconta che alcuni artigiani di Grosio emigrarono in cerca di fortuna a Venezia durante il XVII secolo. Furono così bravi, così raffinati nei loro lavori artigianali che ebbero come premio dai veneziani delle schiave armene. Durante la guerra dei trent’anni la Valtellina fu devastata da guerre, scorribande, pestilenze, carestie. Grosio fu tra i paesi più devastati. Gli emigrati grosini pensarono bene di far rifiorire il loro paese ritornando da Venezia con tutti i loro beni, che erano molti. Portarono con loro anche le loro “schiave armene”. In verità i grosini avevano trattato sempre bene le loro “ donne “, per questo esse avevano accettato ben volentieri di seguire i loro uomini.
Giunti a Grosio videro la condizione disastrata del loro paese e si misero subito al lavoro. Per prima cosa sposarono le loro “ schiave armene “che divennero le loro mogli con tutti diritti del caso a condizione che dovevano attendere a tutti i lavori di casa, alla cura e all’educazione dei figli e se, avanzavano del tempo, anche al lavoro dei campi, delle bestie, ecc. ecc. ecc. Tutto questo affinché gli uomini, sgravati da tutti gli impegni materiali, potessero dedicare tutte le loro energie intellettuali per filosofare e dedicarsi all’arte conviviale e della parola. Un impegno non da poco che mantennero per alcuni secoli e, sembra che alcuni tutt’ora assolvono al gravoso impegno. Grosio rifiorì.
La leggenda aveva colpito Enrico e lui affascinato dalle donne orientali era andato a Grosio in cerca di moglie. Sapeva anche di poter contare su donne forti, generose e graziose.
La cosa funzionò. Dopo quattro mesi di fidanzamento si sposarono. In sei anni ebbero tre figli; un maschio e due belle femmine dai lineamenti orientali. Rosina mantenne fede al “ patto segreto “ che nel giorno prima del matrimonio avevano fatto innanzi all’altare della antica chiesa di S. Giorgio. Ambedue dovevano mantenere le antiche tradizioni del paese. Rosina fu tutta casa e chiesa, mentre Enrico che di lavoro faceva il mediatore, era sempre occupato nel filosofare nei bar. La cosa andò avanti per quasi trent’anni.
Rosina, pur essendo una bella donna, con il gran lavoro sfiorì. Divenne rotondetta, grassoccia, poco attraente. Al contrario Enrico ormai sui cinquant’anni appariva un signore distinto e ben curato nella persona e nel parlare. Per farla breve, tra un filosofare e l’altro, conobbe Francesca, una donna di Tirano che troppo bella non era, ma era giovane. Era allegra, spensierata, desiderosa di viaggi, di avventure esotiche. Enrico cadde nella rete. Si innamorò di Francesca. Scappò di casa. Dopo un anno di follie con Francesca, Enrico si trovò senza un soldo, senza forze e malato, mentre sua moglie Rosina, pur nel dispiacere del tradimento di suo marito, da brava grosina tirava innanzi la sua famiglia guadagnandosi il rispetto e la stima della gente.
Un bel giorno Enrico bussò alla porta di Rosina, Innanzi alla moglie e ai figli chiese perdono per la “sbandata “ presa per Francesca. La buona donna lo perdonò per amore della famiglia e lo tenne in casa.
Alcuni giorni dopo, il Sindaco che sapeva tutto di tutti, incontrò Rosina e le disse: “sei una gran donna, sai perdonare chi sbaglia. Un’altra donna avrebbe contraccambiato l’errore di tuo marito con pari moneta”. Lei rispose: “ L’ho perdonato perché ha capito forte e chiaro che l’è mèi stà cun ‘l prìm dàgn (è meglio stare con il primo danno, ovvero con la propria moglie o con il proprio marito).
In verità questo l’ho sempre pensato e capito anch’io. Sopporterò lui come prìm dàgn ( primo danno ) , ma d’ora innanzi toccherà a lui badare alla famiglia e a tutte le faccende domestiche. Il buontempo non gli andrà più alla testa perché avrà altro da pensare. Riverisco signor Sindaco.” .
Ezio Maifrè